La mia prima volta

Il 30 settembre è la festa del protettore dei traduttori: San Girolamo.

Il santo si è guadagnato questa carica per la sua opera, la Vulgata, cioè la prima traduzione completa in lingua latina della Bibbia. I lavori, iniziati nel 382, durarono ben 23 anni e videro il santo impegnato prima nella revisione della traduzione dei Vangeli e poi della traduzione dell’antico testamento dall’ebraico.

Per celebrare questa ricorrenza tanto cara ai traduttori, ho deciso di fare come la mia amica Maria Pia e raccontarti una storia, la storia della mia prima traduzione.

La mia prima traduzione

La prima volta che ho tradotto un testo penso sia stato alle medie, quando cercavo di decifrare i testi delle Spice Girls – non mi giudicare, anche tu avrai avuto gusti discutibili da adolescente, immagino – dall’inglese in italiano. Niente di troppo complesso se non per la mia ancora scarsa destrezza con l’inglese.

Alle superiori sono poi stata obbligata – si può tranquillamente parlare di violenza – a tradurre i testi di Cicerone e compagnia bella dal latino in italiano, ma non è mai stata la mia attività preferita. Odiavo le versioni e quella lingua raggrinzita e non vedevo l’ora di essere matura per non dovermi più sottoporre a quelle torture.

Finalmente all’università ho potuto assaporare cosa significasse tradurre davvero, per quanto fosse ancora un’operazione un po’ fittizia: ci facevano tradurre testi di letteratura, testi specialistici di economia e tecnici, articoli di giornale. Non sempre bello, ma di sicuro interessante e ci costringeva a studiare quanti più argomenti possibili per riuscire poi a superare l’esame. Questo si è rivelato molto importante anche per il mio futuro lavorativo, perché avendo già assaggiato diverse tipologie di testo, seppur confusa, una volta laureata sapevo già che non mi sarei mai occupata di certi settori – come l’economia o la finanza – perché proprio cozzavano con il mio cervello.

La mia vera prima traduzione

La mia vera prima volta, la prima vera traduzione retribuita ufficialmente con tanto di notula con ritenuta d’acconto, c’è stata nel 2008, quasi alla soglia della laurea triennale, e non è stato nulla di ciò che ci si potrebbe immaginare. Contro ogni dettame dell’università e dei colleghi, la mia prima traduzione da “professionista” è stata la versione in inglese di un menu, una delle cose più difficili su questo mondo.

In primis, una traduzione “in attiva”, cioè dall’italiano verso una lingua straniera, non si fa, a meno che non si sia madrelingua in quella lingua – e io non lo nacqui.

In secondo luogo la traduzione di un menu di un ristorante è davvero un’impresa titanica perché a differenza di quanto si crede, non è una semplice sostituzione di termini tra una lingua e l’altra. La traduzione di un menu richiede una perfetta conoscenza della cultura della lingua nella quale si scrive per adattare i cibi e gli ingredienti a corrispettivi il più simile possibile esistenti in quell’universo culturale. L’Italia ha una tradizione culinaria molto antica, ampia e variegata e la maggior parte dei nostri piatti non hanno un equivalente negli altri Paesi: spesso questi vengono chiamati con il loro nome italiano, o nella peggiore delle ipotesi, vengono resi con una spiegazione dettagliata degli ingredienti che li compongono. I nomi dei vari tipi pasta di grano duro – quella del supermercato, per intenderci – restano uguali anche all’estero: gli spaghetti, i maccheroni (nella variante inglese di maccaroni), le penne mantengono il loro nome in tutto il mondo. Se invece vogliamo “tradurre” in inglese tortellini o lasagne, prodotti tipici italiani e regionali, dovremmo ricorrere a una vera e propria spiegazione di come sono composte queste pietanze, accompagnata dal nome originale: nel caso dei tortellini avremo quindi home made pasta, filled with minced meat. Immaginati quindi un menu intero, fatto di sei antipasti, sette primi e cinque secondi: piatti bellissimi e buonissimi ma molto elaborati, con mille ingredienti, profumi e sapori da raccontare nel loro nome e da trasportare in inglese.

Ovviamente da questa esperienza, che mi ha fatto sputare sangue e bile, ho imparato che non tutti gli incarichi sono fatti per me, che ci vuole una solida preparazione tecnica e linguistica per tradurre in certi settori e, soprattutto, che per tradurre in attiva bisogna avere una conoscenza linguistica maggiore rispetto a quella che avevo io alla fine della triennale.

La morale

Com’è andata alla fine? Ho ricevuto i complimenti dal titolare del ristorante e da alcuni clienti americani per la chiarezza e la precisione della mia traduzione, e per essere stata la mia vera prima volta non potevo sperare in un epilogo migliore! Però non ho più fatto traduzioni così specialistiche in attiva e ho iniziato a valutare meglio gli incarichi prima di accettarli a occhi chiusi per la smania di iniziare a lavorare. Tutto è bene ciò che finisce bene – ma si impara sempre qualcosa!

E la tua prima traduzione qual è stata? Di cosa parlava? Com’è andata? Scrivimi nei commenti, sono curiosa di conoscere altre storie di prime traduzioni!